Dal 2 marzo al 28 aprile 2023 la Galleria 10 A.M. ART di Milano, nella sua sede di corso San Gottardo 5, organizza, a cura di Paolo Bolpagni, una mostra retrospettiva dedicata alla grande artista viennese Helga Philipp (1939-2002), una delle protagoniste della Op Art e delle neoavanguardie astratto-concrete in Europa, autrice di una produzione di altissima qualità e intelligenza. Per l’Italia si tratta di un’autentica scoperta, doverosa e forse sorprendente. Così scrive nel proprio testo di presentazione il curatore:
Il ruolo di questa straordinaria pittrice è stato fondamentale nella scena artistica austriaca a cominciare dagli anni Sessanta, ma si è esteso anche ad altri Paesi europei, rimanendo però pressoché ignoto, nella sua importanza, al di qua delle Alpi. È come se nell’àmbito della “Nuova Tendenza”, che pure, irradiandosi dalla Galerija Suvremene Umjetnosti di Zagabria, accomunò artisti dell’intero continente, raccogliendo sodalizi e collettivi di “cinetisti” attivi in molti Paesi, si fosse determinata una sorta di linea di demarcazione: da una parte gli italiani e i francesi (Gruppo N, Gruppo T, Gruppo 63, GRAV etc.), spesso in relazione reciproca; dall’altra le numerose esperienze del mondo austro-tedesco, alcune delle quali videro Helga Philipp come esponente o protagonista. Certo contò la barriera linguistica, ma forse, in maniera più sottile, si trattava di una differente impostazione di fondo, determinata anche da radici storiche diverse: in Italia il secondo Futurismo e l’astrattismo milanese e comasco degli anni Trenta, in Francia Abstraction-Création e i concretisti; mentre in Germania agiva l’eredità del Bauhaus e successivamente della Hochschule für Gestaltung di Ulm, e in Austria non si poteva ignorare il grande insegnamento primonovecentesco dei linearismi geometrizzanti della Wiener Werkstätte, e poi di un personaggio-chiave come Franz Cižek. Helga Philipp discende dunque da illustri precedenti e, se taluni esiti della sua arte non appaiono così lontani – giusto per citare un paio di esempi – da quelli di Alberto Biasi o di Dadamaino, peraltro risalenti agli stessi anni, vi si coglie uno spirito per così dire più “costruttivista”, con un’attenzione “applicativa” tutta viennese (non si dimentichi la formazione giovanile all’Akademie für angewandte Kunst). Naturalmente, poi, è in lei essenziale l’interesse per l’analisi dei meccanismi percettivi, quindi per la stimolazione di effetti di distorsione, reversibilità, modularità, interferenza, sperimentati sia in dipinti, sia in oggetti cinetici, sia in opere serigrafiche, fino all’approdo alla classica tecnica del disegno a grafite su carta o cartoncino, impiegata però al fine di ottenere sempre scansioni spaziali e severi giochi di “negativi-positivi”, che arrivano ad annullare gli assunti della sintassi compositiva tradizionale disattivandone uno degli elementi essenziali, ossia la distinzione tra figura e sfondo. Qui Helga Philipp lavora sull’ambiguità tra pieno e vuoto, con forme geometriche incastrate le une nelle altre, portandoci a riflettere sulla relatività della percezione: è l’osservatore che, prendendo atto dell’instabilità ottica di queste opere, ne stabilisce a proprio piacimento la modalità di lettura e persino la direzionalità. Nel 1963 l’artista proclamava, con secchezza apodittica, senza utilizzo di lettere maiuscole: «esistenza dell’immagine attraverso lo spettatore. esistenza dello spettatore attraverso l’immagine. movimento nello spazio nell’immagine. movimento nello spazio e dello spettatore attraverso l’immagine. movimento dell’immagine attraverso lo spettatore e lo spazio. cambiamento dell’immagine attraverso il cambiamento della luce. cambiamento dell’immagine attraverso il cambiamento dello spettatore». Quanto scritto allora rimase valido per l’intero prosieguo del percorso di Helga Philipp, che è stato limpido e consequenziale: non mutarono i presupposti, ma furono i mezzi a conoscere progressive evoluzioni, ferme restando l’attitudine analitica e la curiosità sperimentale, dagli Objekt degli anni Sessanta alle Grafik e Druckgrafik incentrate sulla linea curva e sul modulo circolare, fino ai grandi oli su tela – monocromi o calibrati sui non-colori e sui toni di grigio – dell’ultima fase della sua carriera, dove, ancora una volta, il titolo dell’opera (spesso Malerei, pittura) coincide significativamente con la tecnica.
In questo ritorno al grado zero del lessico visivo Helga Philipp ha esplorato le modalità di percezione oculare dell’uomo, i sistemi di funzionamento del nostro cervello, ma senza trasformare se stessa in una pura ricercatrice, proiettata in speculazioni avulse dalla realtà; ma conservando anzi un’amorevole cura per le diverse materie, derivatale dallo studio delle arti applicate, e lo sguardo complice della didatta, ché l’insegnamento non fu per lei un’attività parallela e collaterale, ma una maniera di essere e d’intendere il proprio compito di operatrice della visualità.
Portare all’attenzione del pubblico italiano un’ampia selezione di lavori – dagli anni Sessanta ai Novanta – di Helga Philipp, che fu instancabile anche nel promuovere scambi, rapporti e dialoghi, è un’opportunità per far rivivere una stagione estremamente vivace, e conoscere un’indubitabile protagonista della scena europea della seconda metà del Novecento.