02/10/2013 – La redazione di Archiportale ha recentemente avuto occasione di intervistare lo studio trevigiano C+S Architects, fondato da Carlo Cappai e Maria Alessandra Segantini.
Lo studio ha recentemente inaugurato il suo ultimo progetto per una scuola elementare a Chiarano (TV) e, grazie alla risonanza internazionale che ha avuto il progetto per il Law Court a Venezia, sta partecipando a numerose conferenze in giro per il mondo.
Dopo essere stati invitati all'evento in Pursuit of Architecture al MoMA di NY, sono ora in partenza per Londra per aprire la lecture serie dell’University of East London con Anna Minton e Tim Rettler e successivamente per parlare alla Big Architecture Conference a Lubiana.
Cosa ha rappresentato per il vostro studio poter partecipare all’evento in Pursuit of Architecture al MoMA di NY?
Siamo stati onorati di essere ospitati dalla rivista Log, che negli ultimi dieci anni ha contribuito sostanzialmente al dibattito sulla cultura architettonica contemporanea e dal Museo di Arte Moderna di New York, che è una delle vetrine più prestigiose per la nostra disciplina.
Il riconoscimento della qualità di un lavoro costante tra ricerca, innovazione e cura della costruzione, che portiamo avanti con passione e tenacia da ormai quasi vent’anni, ci rende ancora più forti nel credere che il lavoro dell’architetto si avvicini a quello di un traduttore, che sceglie il contesto del proprio lavoro e che inventa una forma che è allo stesso tempo necessaria e imprevedibile. E’ così che consideriamo i contesti nei quali lavoriamo, dei testi, che attraverso un lavoro paziente di ri-scrittura traghettiamo nel nostro tempo introducendo alcune interferenze che sono le forme del contemporaneo.
Ci parlate del progetto Law Court a Venezia?
Pensiamo che gli architetti siano traduttori di contesti. E la configurazione fisica di una traduzione (noi architetti lavoriamo manipolando la materia) è un ‘adaptor’. LCV è un adattatore.
Permette al complesso della Ex-Manifattura Tabacchi a Piazzale Roma, una volta ristrutturato, di funzionare nella contemporaneità.
Abbiamo cercato di tradurre in modo non convenzionale il bando di gara, che prevedeva il solo recupero dell’esistente, innestando invece un nuovo volume nell’unico spazio a disposizione che si rivolge al grande vuoto di Piazzale Roma.
Piazzale Roma è per noi uno degli spazi più interessanti della città di Venezia, il luogo dove si incontrano flussi diversi a velocità diverse (pedoni, treni, automobili, imbarcazioni).
Ma è anche il luogo dove la trasformazione della città è palpabile, dove la piccola scala del tessuto residenziale veneziano coesiste con manufatti ottocenteschi di archeologia industriale, con i grandi volumi novecenteschi dei garages multipiano e infine con il super-contemporaneo ponte di Santiago Calatrava.
LCV è un adattatore tra le diverse scale edilizie.
Abbiamo manipolato in lunghezza e altezza lo spazio archetipico della città di Venezia, la teza, uno spazio vuoto compreso tra due setti portanti e una copertura a falda. LCV è il risultato di questa manipolazione, quasi che della teza fosse rimasta solo la sua ombra, l’essenza della città di Venezia, che per noi è una sequenza di ombre, di spazi vuoti, se riusciamo a guardarla oltre il decoro delle sue facciate.
E’ invece l’etimologia del decoro che ci interessa, il decorum, che LCV traduce nell’offerta alla città di una porta, una grande hall di ingresso, da attivare da parte di quella comunità che, alla fine dei lavori di restauro, vedrà restituirsi uno spazio pubblico per molto tempo intercluso.
LCV è pensato con un programma ibrido: ospita alcuni uffici giudiziari, ma è anche e soprattutto uno spazio di passaggio per infiltrare la città grazie ad uno sbalzo di 5 metri verso Piazzale Roma, che sembra voler catturare i flussi pedonali ed è infine un’infrastruttura che, negli ultimi due piani, ospita tutti i sistemi impiantistici per far funzionare l’intero sistema degli spazi recuperati della Ex-Manifattura Tabacchi.
Il rivestimento in rame pre-ossidato, che a Venezia è uno dei materiali che contraddistingue gli edifici istituzionali, oltre a voler sottolineare il ruolo dell’edificio nel contesto, è anche un modo per istigare l’azione del tempo in architettura. Non sappiamo quando o in quale modo il processo di ossidazione lo trasformerà in un grande tetto verde, come quelle cupole che punteggiano l’orizzonte della città.
Ma questa è un’altra traduzione, che sospende LCV tra memoria e contemporaneità.
Quale credete possa essere il valore aggiunto che può apportare l’architettura italiana nel panorama internazionale? In cosa invece la pratica architettonica italiana è carente, specialmente in questo periodo di crisi?
L’architettura italiana è da molto tempo in crisi. In crisi di Committenza, innanzi tutto. L’architettura contemporanea da molto tempo ha un ruolo marginale sui nostri quotidiani, sui nostri mezzi di informazione. Una crisi che va via via peggiorando se consideriamo che anche i brand del design e della manifattura stanno lasciando il nostro Paese.
In questo senso pensiamo che l’architettura italiana possa avere, proprio in questo momento, una particolare rilevanza, se esportata, se valorizzata extra moenia. Gli architetti italiano hanno lavorato per lunghi decenni cercando con costanza spazi dove potersi esprimere all’interno di budgets spesso ridicoli, di disinteresse verso temi che non si limitassero solo all’ottenimento, da parte del Cliente, di un immediato profitto e spesso a scapito di un territorio che è stato brutalizzato.
Pensiamo che gli architetti italiani che hanno fatto della resistenza al sistema il loro paradigma, chi ha lavorato sulla ricucitura del paesaggio, chi si è interessato a ripensare in modo nuovo spazi convenzionalmente interpretati come scatole funzionali (pensiamo per esempio all’edilizia scolastica) oggi sia l’interlocutore più adatto per affrontare una crisi che non è solo italiana.
Ci dareste qualche anticipazione su progetti futuri o attualmente in corso di realizzazione?
Abbiamo appena terminato due progetti di edilizia scolastica che trasformano radicalmente l’idea di scuola come spazio monofunzionale. Una di queste scuole è il risultato di un concorso pubblico, mentre l’altra è il frutto di un investimento privato. Si tratta di un Committente che, come ai tempi di Olivetti, ha ritenuto che l’architettura potesse diventare un valore aggiunto, per lo svolgimento della sua attività e che ha in programma di costruire una rete di micro-centri scolastici in Veneto. Forse qualcosa sta cambiando? Stiamo anche lavorando su progetti più importanti di trasformazione urbana e siamo appena stati invitati al concorso per la trasformazione dell’area dell’Hotel Intercontinental a Vienna.
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