Paolo Sorrentino_La dolce attesa_©Saverio Lombardi Vallauri_Salone del Mobile 2025
11/04/2025 - Fra i Progetti Speciali di questa edizione del Salone del Mobile.Milano è possibile visitare fino a domenica in Fiera il progetto-installazione La dolce attesa in cui lo sguardo visionario del regista Premio Oscar Paolo Sorrentino, affiancato dalla scenografa Margherita Palli e dal tessuto sonoro di Max Casacci, porge “un tributo a un sentimento universale: l’attesa, il momento più sincero della vita, scandito dal battito di un cuore misterioso”.
La dolce attesa (pad. 22-24) è un’esperienza che trasforma lo spazio in un controcampo di emozioni sospese, in un limbo di suggestioni visive e sonore, giocando sul confine tra due verbi. Ce n’è uno, attendere, che non significa stare fermo. Attendere è volgere lo sguardo, tendere verso. Inseguire, senza correre. E c’è l’altro, quello sbrigativo, perentorio: aspettare. Che mette ansia. Il piede che batte nervoso, l'occhio sull'orologio, il tempo che non passa. Aspettare è lo stato d’animo dell’insofferenza. L’attesa, invece, è una dimensione. Un luogo in cui qualcosa può accadere. Un tempo di transizione. Per questo (forse) il regista la chiama “dolce”. Perché l’attesa non è passiva. È sì lenta, ma fertile. Incubatrice. Le serve tempo. Il tempo di trasformare il caos – quello fuori e dentro di noi quando aspettiamo in una clinica – in qualcosa di riconoscibile. Non subito. Al momento giusto. Bisogna saperci stare, nel vuoto di quella sala. E allora come quello spazio viene progettato e realizzato può fare la differenza.
Spiega Paolo Sorrentino: “Con “La dolce attesa” parliamo dell’attesa di un responso medico. Quel tipo di attesa diventa una sospensione. Rimaniamo appesi. Fermi, tesi, nervosi. E angosciati. E la sala d’attesa, così come è stata concepita fino a oggi, è solo un’amplificazione dell’angoscia. Tra pareti bianche, sedie scomode, monitor che proiettano numeri, impiegati scontrosi, si finisce per accanirsi ossessivamente sullo smartphone. Forse, allora, dovremmo ripensare l’attesa. Ingannarla. Viaggiare e perdersi nel viaggio come in un vago senso di ipnosi. Così, forse, aspettare può diventare meno penoso. Perché diventa altro. La nostra sala d’attesa vuole essere un’altra cosa. Non ti costringe a star fermo, ma ti lascia andare. Un piccolo viaggio, come da bambini, su giostre rassicuranti. Da adulti, i cavallucci sono diventati poltrone come gusci, come ventri materni. Gli impiegati riluttanti sono sostituiti da uomini e donne che ti riconciliano con un’idea di tranquillità. Ti sorridono e sanno regalare una carezza paterna. La vista si concentra su un coacervo di vetri smerigliati che occultano, deformano, l’unico elemento che, se continua a battere, ci allunga la vita. È il cuore. Nascosto, misterioso, eppure lui è lì, a ricordarci che non è ancora finita”.
Nell’epoca della velocità e del “tutto subito”, riscoprire il senso dell’attesa significa approcciarsi ad essa cogliendo l’opportunità di osservarsi e ascoltarsi. L’attesa come il momento prima dell’alba.
Per riempire questo buio, Paolo Sorrentino ha scelto Margherita Palli – scenografa con quarant’anni di carriera, costellati dalle collaborazioni con registi come Luca Ronconi, Liliana Cavani, Mario Martone, Alexander Sokurov e coreografi come Yang Jiang, Daniel Ezralow, e da moltissimi premi, tra cui sei Premi UBU.
Lei, che al primo appuntamento con il regista non sapeva cosa aspettarsi, racconta: “Faccio il set designer, mi occupo di opera lirica, di prosa, mostre ed eventi; con il mio collaboratore Marco Cristini ho l’arrivo di Sorrentino; cosa voleva da me, cosa dovevo fare, un’attesa ansiosa del tema da svolgere. Con poche parole ma con un’idea precisa ci ha raccontato la “sua” attesa e ci ha chiesto di pensare a un luogo che la renda più dolce e a un caleidoscopio che nasconde un cuore. Quando è andato via, ho pensato che dovessi procedere come faccio di solito, creare la scenografia di uno testo di un’opera lirica; muovermi dentro un edificio effimero con un senso dell'orientamento e attenzione a segni, simboli e significati, rispettando le richieste. Un Teatro è un grande spazio per lo più situato al centro delle città. I grandi Teatri sono chiamati Opera, mentre i piccoli Teatri possono essere chiamati “La dolce attesa” ed essere dentro un padiglione della fiera a Rho”.
Se l’attesa è uno spazio sospeso, il suono deve saperla colmare mentre ne racconta il ritmo. Per questo, Paolo Sorrentino ha affidato a Max Casacci la creazione di un tessuto sonoro che ne scandisce lo scorrere. Un battito sommerso, pulsante, che accompagna l’esperienza immersiva dell’installazione senza imporsi, ma penetrando nel respiro di chi la vive. Musicista, produttore e ingegnere del suono, Casacci è noto per essere il fondatore e chitarrista dei Subsonica, una delle band più influenti della scena musicale italiana. La sua ricerca sonora lo ha portato oltre i confini della musica tradizionale, sperimentando con i suoni dell’ambiente e trasformando il quotidiano in composizione.
Recente la sua collaborazione con Michelangelo Pistoletto, con cui ha realizzato Watermemories, un’opera sonora nata dai suoni dell’acqua di Biella. È stato direttore del Traffic Torino Free Festival, uno dei principali festival rock italiani e nel corso della sua carriera, ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Italiano della Musica e l'MTV Europe Music Award come miglior artista italiano. Il suono che ha creato per La dolce attesa è una presenza che vibra, si dilata e si contrae, proprio come il tempo dell’attendere.
Casacci costruisce un paesaggio acustico che avvolge il visitatore, evocando la tensione e la magia dell’attesa: “Una musica senza strumenti musicali che, intonando esclusivamente rumori e canti del mare, suoni delle foreste, respiri del vento e trasparenze di cristallo, si immerge nel battito di un’attesa” racconta il musicista.
L’attesa non è silenziosa, è un ritmo interiore che pulsa sotto la superficie. E in questo viaggio ipnotico e stordente, il suono di Casacci diventa il battito nascosto di quel tempo che scorre, insegnandoci ad ascoltare l’attesa con cuore e orecchie nuove.
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