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Gli Spazi del tempo. Il disegno come memoria e misura delle cose
A Roma la mostra di Franco Purini
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08/02/2011 - Venerdì 4 febbraio 2011, presso la Sala Mostre & Convegni Gangemi Editore, è stata inaugurata la mostra di Franco Purini dal titolo “Gli Spazi del tempo. Il disegno come memoria e misura delle cose”, in esposizione fino al 7 marzo 2011.

Assieme alla scrittura il disegno è uno dei pochi linguaggi capaci di rendere visibile il tempo. Un tempo il quale, a differenza di quanto si tende a credere, non è qualcosa che scorre uniformemente lungo una traiettoria lineare. Esso infatti può avvitarsi a spirale, dilatarsi e contrarsi, arrestarsi, cambiare improvvisamente direzione, muoversi seguendo gli andirivieni di un labirinto infinito. Inoltre, il tempo può non solo invertire il proprio corso o arrestarsi, ma è anche in grado di sdoppiarsi progressivamente fino a comporsi in una molteplicità di espressioni. Il tutto in un’avvincente dialettica tra tempo interiore e tempo esterno. Nel suo immediato svolgersi il tempo non consente una sua vera e propria esperienza. Solo una sua rappresentazione permette, attraverso la memoria, che gli spazi mentali che esso produce si configurino come una narrazione incessante e stratificata, nella quale l’abbandono emotivo e l’elaborazione razionale convivono generando plusvalori conoscitivi e poetici. Assieme alla scrittura il disegno trascrive il tempo nel suo contrario, trasformandolo in una immobilità che pensa, desidera, ricorda. [Franco Purini, 21 gennaio 2011]


La scrittura architettonica di Franco Purini tra enigmi e paradossi
Di Francesco Moschini


La recente serie di disegni che Franco Purini ha intitolato “Gli spazi del tempo”, con l’ulteriore precisazione “il disegno comememoria e misura delle cose”, può essere colta come un vero e proprio “punto e a capo” all’interno delle sue pur numerose serie, a partire dal mitico ciclo “Pareti” del ’67, via via passando per “Around the schadow line” del 1984, o a “Come si agisce dentro l’architettura” del ’93, o alle più prossime “Inizi” del 2005, o “Scritture veneziane” del 2010. Se i più recenti cicli sembravano aver fatto tabula rasa degli eccessi di scrittura architettonica sul filo di un esasperato spiritualismo, che condensava e restringeva il pur laconico segno di Jawlenskij in pochi segni e in ascetiche figure che facevano della propria afasia un perturbante vuoto e silenzio attorno, con questa nuova serie di venti disegni, dove anche il formato assume una rilevanza per la scelta di una ascetica verticalità quasi a rompere l’ossessiva fissazione del quadrato “immutabile” come campo privilegiato della propria scrittura architettonica, le nuove tavole tornano a porsi come opera “memoriale” degli elementi di affezione puriniani, declinati in pochi elementi, quali pareti, scale e finestre, su cui paiono riverberarsi in filigrana i lasciti dei pochi numi tutelari che Franco Purini si è scelto come compagni di viaggio, da Piranesi a Libera a Terragni. Certo l’intera serie di disegni è incardinata attorno ad un’idea di tempo che nel momento in cui sembra scorrere denuncia anche la propria “immutabilità”.

A cosa alludono allora quei perentori tagli in diagonale che, come biffures segnano e pervadono quasi tutte le tavole stabilendo un doppio campo e un doppio registro tra luce ed ombra, tra mostrato e inconoscibile? Forse all’attesa di un disvelamento? al momento in cui la tridimensionalità della natura architettonica emerge dalla bidimensionalità del supporto cartaceo attraverso la traccia del tempo, a rivelare, attraverso l’ inspessimento dell’ombra, il suo contenuto specifico? Forse al mistero che si nasconde anche in quel tentativo sotteso di perseguire una perfezione aurea nella misura? Certo tutte le tavole sembrano concentrarsi su un perseguito moto ascensionale, in un ermetico omaggio a “cherubiniane” scale, che di sicuro non saranno mai percorse da “serafini troni e dominazioni”, sia quando alludono a costruzioni templari della Roma repubblicana, come quelle in cui è più diretto il riferimento al tempio della Fortuna Primigenia di Preneste, sia quando sono segnate dalla memoria campanelliana della “Civitas Solis”, sia quando appaiono scandite dalle sequenze di mensole e travature sospese in improbabili tensioni, o da trapezoidali aggetti che in bilico tra vocazioni a darsi come mastabe parietali con distorsioni tortili e più irruenti “emblemata”, permettono allo sguardo di rifluire verso l’alto, accompagnati, pur sempre, dalla ricorrente ossessione figurale della struttura alveolata, omaggio del padiglione di Libera e De Renzi a Bruxelles del 1935.

Anche i rapsodici spattinamenti degli elementi lamellari in rilievo, nel loro apparente precipitare, alludono, in realtà, ad un loro scorrere verso l’alto che non si dà mai come conclusione della tavola, quanto piuttosto come interruzione momentanea di un andare troppo oltre. In
questo ben si accordano le isotropie interrotte del sistema trilitico, che, sfaldandosi verso l’alto, sembrano ricercare una poetica dell’errore creativo che molto deve a quell’idea di incidente tettonico più volte evocato da Purini stesso nei propri progetti con il ricorso a vistosi salti di scala, o con impossibili concatenazioni angolari delle aperture, e provocano quel collasso visivo di memoria piranesiana tra eccesso di evidenza, come nelle tavole dedicate alle epigrafi di Piranesi, e gusto dell’enigmatico, volutamente irrisolvibile.

Quando poi in alcuni suoi disegni la visione sembra farsi più rassicurante, con quei velati richiami all’elementarità delle scenografie teatrali di Gordon Craig ed Adolphe Appia, ci accorgiamo che quell’ordine ritrovato si pone come risposta alle ambigue stratificazioni di “ambienti - lupanari” di memoria felliniana, così come alle inquietudini del tremblement delle Torri kieferiane, finalmente del tutto “raggelato” in quelle esasperate “macchine di risalita” sospese tra visionarie “scale di Giacobbe”, di memoria biblica, e suggestioni da giardino astronomico orientale. Una ritrovata grandezza, sottesa ad un profondo senso dell’infinito si confronta inoltre con la ricercata tensione verticale e con l’errore rogrammato, un “gigantismo” d’insieme, dichiarato dalla ristrettezza di una visione parziale, che allude a ripetizioni di sistemi infiniti, estesi a saturare l’intero spazio.

Si delinea così un processo che vede le forme-oggetto annegare nella successione estenuante delle scale, le porte murate scavarsi nel tratteggio sgranato dei muri, il tutto svelato dall’effetto di una luce straniante, che conferisce peso e senso al’idea rappresentata, in una dimensione in cui le categorie di spazio e di tempo vengono sospese al momento della loro più chiara determinazione. Alla visione parziale, spetta dunque l’arduo compito di narrare il non detto, l’inaccessibile, l’enorme massa di cui Franco Purini lascia intravedere il solo e incombente spettro diagonale.

In un’altra ottica queste opere sembrano imoltre trovare continue sollecitazioni da quell’idea di “imprecisione” come autentico significato
poetico che abbiamo imparato a riconoscere nella lettura shakespeariana di William Empson ne “I sette tipi di ambiguità”, che già negli anni ’60 era stato punto di riferimento per il Venturi di Complessità e Contraddizioni... Certo nell’intero ciclo sembra riaffiorare, nei confronti della modernità l’idea puriniana a proposito della dimensione mitologica, quasi a significare che se non è del tutto perduta può essere oggetto di ricostruzione ideale. Anche in questo caso potrebbe trattarsi di un’azione impossibile, resa plausibile dal ricorso ad una nostalgia attiva, confermata dal fatto che l’intera serie delle tavole vuole collocarsi sul crinale che separa la regola dall’arbitrio, l’intero dal frammento, infine, l’errore dalla soluzione corretta, in un discorso in cui il progetto teorico che lo sottende si dà come concentrato di temi e soluzioni, vero e proprio “accumulatore” che fa dell’astrazione il suo centro. Dunque gli errori compositivi sono operazioni premeditate, abbiamo cercato di individuarne anche alcune infrazioni tettoniche, quelle stesse che nell’architettura realizzata perturbano visivamente l’ordine costruttivo dell’edificio.

Certo per Franco Purini si inseguono da sempre le costanti della dissimmetria, di quell’anonimato come regola, di quell’uniformità come strumento, che sembrano messi in crisi dal ricorso ad un sistema di grandi frantumi architettonici in continuo instabile equilibrio, che possono produrre quella totalizzante archeologia del nuovo cui l’autore ha sempre puntato.

Ma l’intero ciclo attuale sembra ambiguamente sospeso, secondo la straordinaria lettura puriniana dello stesso Piranesi, tra dimensione classica su base gotica e mondo nordico proteso al “prolungamento” dei corpi, abbandonando l’ortodossia classica di circoscrivere tutto attorno al proprio asse, anche in questa serie, pur tesa alla serrata unitarietà, tutto si costruisce sul frammento, in una composizione paratattica, in una sorta di poetica dell’elenco, dove anche il sistema gravitazionale ha un proprio determinante peso: un comporre anche quindi attraverso elementi isolati che mantengono una voluta ambiguità dimensionale tra misura e dismisura, in cui gli stessi elementi sembrano vibrare nell’atmosfera. Ciò a cui Purini sembra rinunciare è l’esito finale che egli stesso ci ha saputo indicare in Piranesi secondo l’insegnamento che ci si possa rigenerare solo distruggendosi.

  Scheda evento:
Mostra:
04/02-07/03 SALA MOSTRE & CONVEGNI GANGEMI EDITORE - ROMA
Gli Spazi del tempo


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